Abbiamo tutti visto il controverso spot di Esselunga (in caso contrario, in fondo all’articolo ho inserito il video).
Ho molte perplessità a riguardo, soprattutto dal punto di vista di relazioni, crescita personale e responsabilità per la propria vita. Non sento di edulcorare molto la pillola per cui vado dritto al punto.
Il rapporto perfetto a ogni costo
Il sentimento che prevale nella visione, per quanto mi riguarda ovviamente, è un peso sullo stomaco poiché la bambina è completamente sopraffatta dalla rottura del rapporto tra i genitori, rottura narrata tra sensi di colpa, rabbia inespressa e silenzi.
Una colpevolizzazione di sottofondo per non avere una famiglia “perfetta” (secondo canoni assolutamente patriarcali) che lacera la realtà variegata delle famiglie: non solo tra etero od omosessuali, ma anche tra chi è single, chi ha perso il proprio comapgno o compagna, chi vive in comunità, chi è cresciuto con una famiglia allargata.
E’ ridicolo pensare in questo momento storico al nucleo familiare composto sempre da madre, padre e prole. E’ letteralmente anacronistico. Ha il solo effetto di introiettare nella nostra mente modelli non veritieri che ci separano dalla nostra verità e dal nostro personale modello di famiglia.
Inoltre viene stigmatizzata la rottura di un rapporto… ritornando all’idea di famiglia perfetta in cui non ci si può separare.
Emozioni represse
Il silenzio di sottofondo urla più di mille parole.
Una madre pervasa dal livore, dalla rabbia e dall’insofferenza nel dover scendere a compromesso che non riesce a manifestare tutta la frustrazione della situazione, educata a tenere duro e inghiottire anche i bocconi più amari, anche se ciò provoca rancore e durezza.
Un padre che con occhi gonfi di emozioni subisce decisioni piovute dal cielo, mascherando i suoi veri sentimenti dalla coda fra le gambe.
Una bambina che nel suo silenzio cerca di essere vista, ascoltata, capita, che trova escamotage per raggiungere una comunicazione e un contatto che cerca disperatamente… ma che non riesce a esprimere.
Ruoli di genere stereotipati
Il clichè che emerge è che il ruolo della stronza è sempre quello della moglie (perdonate il linguaggio basso e gretto), a differenza di un marito che si strugge dal desiderio di riavvicinarsi e di trovare un appiglio, che trasferisce tutta la sua comprensione amorevole verso sua figlia.
Certo, nessuna pubblicità, film o video in generale hanno l’obbligo di esprimere una parità di genere e ruoli sempre e comunque… ma perchè sempre lo stesso? Perché è sempre la moglie, la madre, la figura femminile ad avere lo scettro del potere arrogante e violento?
Stiamo assistendo a una narrazione sociale completamente opposta, in cui la violenza è ripetuta da uomini che non riescono a confrontarsi con le loro emozioni: è davvero necessario dipingere un modello di questo tipo?
Ma quindi, con cosa ci dobbiamo confrontare?
Relazioni consapevoli
Le relazioni finiscono, che ci piaccia o no. Ed è il caso di iniziare a comportarci di conseguenza, senza fasciarci la testa e deprimerci nel lago del senso di colpa.
Alcune relazioni durano fino alla morte, altre si interrompono prima, altre si modificano in itinere… e vanno tutte bene!
Credo che il punto focale sia fare i conti con queste dinamiche e accettarle quali espressioni della realtà, della nostra verità, di come ci sentiamo a riguardo e di ciò che ci fa stare bene.
Perchè rimanere in relazione se questa provoca disagio, attrito, se non c’è più amore ma la consapevolezza che questa esperienza è giunta a termine?
Esercitare la libertà e soprattutto la responsabilità per la propria vita passa anche attraverso il riconoscere quando un rapporto, anche se duraturo, è giunto a termine.
Viviamo di relazioni e una sfida evolutiva che abbiamo è amare noi stessə e il nostro benessere senza cadere nelle varie forme di dipendenza affettiva.
Riconoscere lo stadio di una relazione, a prescindere dal tipo, è una educazione che ci meritiamo, senza sentirci in colpa per ciò che desideriamo e ciò che sappiamo possa portarci un maggior senso di benessere (fosse anche lasciarci).
Comunicare con i figli e figlie
Se ci educhiamo al rispetto di noi stessə, saremo anche capaci di educare i nostrə figli e figlie ai vari stadi di una relazione.
Il silenzio porta alla creazione di vuoti che poi ci ritroviamo a dover elaborare per lasciare andare le emozioni represse e congelate in quegli istanti, oltre al carico sui bambini che crescendo si ritroveranno a confrontarsi con un modello di questo tipo e, se ha provocato sofferenza non espressa e compresa, a dover lavorare profondamente su questi traumi legati al non detto e non alla rottura in sé.
Comunicare, spiegare in un linguaggio comprensibile ciò che sta accadendo, mostrare che anche se provoca dolore è un passo necessario per stare meglio, è una delle chiavi con cui liberare i nostri figli dall’oppressione, dall’inadeguatezza e dal senso di colpa.
E soprattutto farli sentire ascoltati, amati, visti, coccolati, protetti, coinvolti aiuta a sciogliere quello che potrebbe risultare un trauma, oltre che a viverlo con evoluzione e crescita da parte di tutti i componenti, evitando che vadano a nascondersi in un supermercato per trovare una pesca per mettere una pezza a uno strappo non curato.
L’obiettivo di ogni pubblicità è sempre quello di raggiungere sia un obiettivo comunicativo che di marketing, ma quello che mi chiedo è: “Non siamo stanchi di lasciarci pilotare da bisogni, regole e valori indotte dall’esterno? Quando abbiamo scelto di uniformarci emotivamente a un messaggio pubblicitario?”
Sicuramente lo spot fa parlare di sé, risultando memorabile… ma a che costo? E’ ancora valida la seducente idea del “Purché se ne parli?”
Quello che ho visto nella mia esperienza nel marketing è proprio questa tendenza, e credo sia stata proprio questa a farmi vedere le ombre di uno strumento che potrebbe invece essere meraviglioso per chi desidera vendere in maniera etica, consapevole e rispettosa.
Non sento rispetto in questa comunicazione, né per me, né per la società e per i rapporti e relazioni che ci contraddistinguono, rispetto necessario per poter accoglierci nella nostra mutevolezza umana.
Kailash Giacomo Vissani